Michela Murgia: “Non chiamatela maternità surrogata”

Il dibattito sulle unioni civili entra nel vivo al Senato. Il nodo della stepchild adoption è il più delicato, perché l’adozione, per le coppie omosessuali, del figlio biologico o adottivo del partner porta con sé il tema della gestazione per altri: lo denunciano non solo i centristi e chi ha riempito la piazza del Family day, spesso in maniera strumentale per opporsi all’intera legge, ma anche alcune correnti del femminismo.

Nelle scorse settimane proprio un appello di un pezzo di quello che fu il movimento Se non ora quando (l’associazione Snoq Libere) ha aperto anzi il dibattito a sinistra, denunciando i rischi di quello che viene appositamente descritto come «utero in affitto». Tra le donne che non firmarono l’appello c’era la scrittrice Michela Murgia (Chirù è il suo ultimo romanzo, pubblicato da Einaudi).
Per spiegare la sua scelta, Murgia ha composto su Facebook, a puntate, una lunga riflessione sul tema della gestazione per altri o, se preferite, sulla “maternità surrogata” o, come dice Mario Adinolfi, sull’«utero in affitto».

Ripubblichiamo per intero lo scritto di Murgia.

Il medium non è il messaggio. Per non tornare a confondere gravidanza e maternità

Da settimane mi ronza in testa il fastidio legato all’appello contro la “maternità surrogata” firmato da molte donne (e tra loro molte che stimo e con cui ho condiviso percorsi), ma che io mi sono rifiutata di firmare, come tante altre. Non ho scritto ancora il perché e la ragione è che il perché è complesso e richiede molta e collettiva elaborazione, che sospetto siano alcuni degli aggettivi con cui non si può definire il percorso che ha condotto alla stesura dell’appello di Snoq Libere. Vorrei iniziare l’anno condividendo in post differenti alcune riflessioni che ho fatto in questi mesi sul tema, cercando il più possibile di isolare le direttrici del discorso per affrontarle con la minima confusione possibile, e intendo la mia, dato che questo è un tema su cui non ho certezze.

Il primo motivo per cui l’appello di Snoq Libere mi ha lasciato perplessa è l’uso dell’espressione “maternità surrogata”, collegata all’insistenza su una sorta di naturalità cogente insita nel legame di gestazione, definito con una certa enfasi “percorso di vita” e “avventura umana straordinaria”. Prima di cominciare a discutere di maternità surrogata penso che andrebbe definito meglio cosa dobbiamo intendere per maternità nel 2016. Se con essa ci riferiamo alla dimensione fisica e/o spirituale che unisce al desiderio procreativo la disposizione ad assumersi la responsabilità genitoriale su una vita altrui, è escluso che essa si possa surrogare, giacché è un atto di volontà e consapevolezza personale non alienabile.

È fin troppo ovvio dire che non basti restare incinte per parlare di maternità, ma forse non è altrettanto ovvio ricordare che questa affermazione è una conquista civile piuttosto recente. Per secoli siamo state infatti madri per forza, impossibilitate a sottrarci al percorso del sangue e alle funzioni collegate, se non a prezzo di una fortissima condanna sociale. Sono state le lotte del femminismo del secolo scorso a costringere la società a ripensare la maternità fino a definire madre solo quella che accetta di esserlo, trasformando in scelta individuale ciò che era un destino collettivo.

Non è quindi tollerabile oggi in un discorso serio sentir definire “maternità” il processo fisico della semplice gravidanza, che in sé – e lo sappiamo tutte – può escludere sia il desiderio procreativo sia la disposizione ad assumersi la responsabilità e la cura del nascituro. Di conseguenza è improprio discutere anche di maternità surrogata. Si può discutere invece di gravidanza surrogata, purché resti chiaro che si tratta di qualcosa di profondamente diverso. Operare questa distinzione è tutt’altro che ozioso, perché la legge italiana – entro i limiti che conosciamo – permette già ora a una donna che resta incinta di scindere i due processi e agire per rifiutare il ruolo indesiderato di madre, sia attraverso l’interruzione di gravidanza, sia attraverso la rinuncia permanente a curarsi del neonato.

Chi si oppone alla gravidanza surrogata chiamandola “maternità” e adducendo come motivazione l’unicità insostituibile del legame che si stabilirebbe tra gestante e feto sta ponendo le condizioni perché gravidanza e maternità tornino a essere inscindibili e quella sovrapposizione torni a essere usata contro le donne SEMPRE, ogni volta che per i motivi più svariati provassero a scegliere di non essere madri.

Reintroducendo nel dibattito la mistica deterministica del “sangue del sangue” non si sta quindi mettendo in discussione solo l’ipotesi della surrogazione gestazionale, ma anche alcuni comportamenti che sono già normati come diritti nel nostro sistema giuridico, cioè l’aborto e la possibilità di rinunciare alla potestà genitoriale, per tacere dell’adozione, legame di pura volontà che in questo modo – non originandosi “dall’avventura umana straordinaria” della gravidanza – tornerebbe nell’alveo delle maternità di serie B. Sbalordisce dunque che a utilizzare la categoria del legame naturale siano donne che si richiamano al percorso femminista.

Il prezzo di dare la vita. Quanto costa la libertà di sceglierci madri.

La questione economica è apparentemente il cuore del dibattito sulla gravidanza surrogata. È socialmente accettabile che donne povere possano vendere la propria capacità riproduttiva – quella, non il proprio figlio – a ricche coppie sterili? Si può iniziare spontaneamente una relazione biologica come la gestazione senza avere intenzione di assumersi la maternità che ne deriverebbe? Lo si può fare anche dietro compenso? Più ci penso, più mi rispondo che una legge che metta delle regole all’eventuale risposta positiva a questa domanda è molto più urgente di una legge che impedisca di porsela, visto che qualcuno se la porrà comunque e andrà a cercare la risposta in India.

Per ragionare intorno a questa ipotesi provo a partire da alcune considerazioni sulle leggi che regolano l’aborto e la rinuncia alla potestà. Entrambe le scelte sono di fatto interruzioni di una relazione biologica praticate unilateralmente dalla donna coinvolta. Le ragioni possono essere le più diverse, ma quelle economiche sono tra le principali. Quando ci si trova davanti alla possibilità di mettere al mondo una nuova vita i soldi sono un argomento molto rilevante, se non addirittura dirimente. Si abortisce (e in misura minore si abbandona il figlio nato) perché talvolta non si vogliono figli, ma soprattutto perché, anche a fronte di un desiderio di maternità, ragioni di opportunità economica suggeriscono di rimandarla: si è precarie senza prospettiva di stabilità, non si guadagna a sufficienza, si teme di essere licenziate o demansionate, si hanno già altri figli che assorbono le risorse familiari o non si ha la casa, il lavoro o lo status sociale di garanzia per sé e per chi nascerebbe. Non è un caso se l’articolo 4 della legge 194/78 indica esplicitamente quelle economiche tra le ragioni valide per consentire l’interruzione di gravidanza: sono tutt’altro che rare.

Il punto quindi è: se in questo paese esiste una legge che consente l’interruzione di gravidanza perché non si hanno abbastanza sicurezze economiche, secondo quale logica non dovrebbe esistere una legge che per ottenere quelle sicurezze ne consenta invece l’inizio e il prosieguo? Quale sarebbe la ragione per cui si può impedire la nascita di un essere umano perché non si hanno abbastanza soldi, ma non si può ipotizzare una legge che permetta di realizzarla per ottenerli?

Che siano i cattolici a opporsi non stupisce: la dottrina morale della Chiesa non attribuisce alla volontà della donna un valore superiore alla vita del generato, a meno che non siano in gioco entrambe, e quindi è perfettamente coerente che il mondo ecclesiale si opponga tanto all’aborto che alla gestazione per altri: sono entrambe espressioni di arbitrio assoluto sulla vita nascente.

Assai meno coerente mi pare che a opporsi alla surrogazione siano persone che si richiamano ai valori che hanno permesso l’esistenza di una legge sulla libertà di scelta della donna in merito all’aborto, che mi sembra appartenere allo stesso ordine di senso.

La gestazione per altri (da qui in poi GPA) dal punto di vista formale non è altro che una gravidanza indesiderata – dato che per sé stesse non la si sarebbe intrapresa – portata a termine invece che interrotta. Lo stesso principio che difende il diritto di interrompere una gravidanza dovrebbe, a rigor di logica, essere applicato al diritto di darle inizio e portarla a compimento a prescindere dal fatto che ci sia di mezzo un accordo economico, perché se le ragioni economiche sono legittime per decidere di abortire, non possono essere illegittime per decidere di partorire.

Che poi lo Stato debba fare di tutto per rimuovere le ragioni economiche dell’una e dell’altra scelta è una questione di giustizia che riguarda noi tutti, lo Stato e le sue politiche sociali, ma non la donna e le sue scelte. Nessuna dovrebbe essere costretta ad abortire o a partorire per altri perché ha bisogno di soldi, ma finché non saremmo socialmente in grado di rimuovere gli ostacoli economici che impediscono alle donne di scegliere di diventare o meno madri secondo il solo loro desiderio, esse devono poterlo fare dentro a un quadro di regole che le tuteli e tuteli chi da loro nasce. Chiedere che si faccia una legge per impedire la GPA non solo non ferma lo sfruttamento, ma lo rende privo di limiti.

Pagate non vuole dire vendute. Nessun prezzo trasforma il dono in merce.

La questione economica è molto problematica, ma non mi sembra eludibile. Una gravidanza comporta tempo, alterazione fisica e rischi oggettivi: immaginare che qualcuno possa affrontare tutto questo per altruismo significa riferirsi a una ridottissima minoranza di donne, probabilmente in occidente; il rimanente – cioè tutte le donne che lo stanno già facendo – lo farà per soldi e per nessun altro scopo. Mi appare del resto impensabile chiedere a qualcuna di affrontare un simile impegno senza prevedere un’assicurazione, un’alta remunerazione del tempo della gestazione, un adeguato percorso medico, un supporto all’eventuale famiglia che si priva della sua presenza, forza e salute e un accompagnamento successivo che duri fino al completo recupero psicofisico della donna. Dove c’è una legge, queste cose ci sono tutte o in gran parte. Dove una legge manca, le donne lo fanno lo stesso e queste garanzie non le hanno.

Il problema è la povertà di partenza? Certo che è la povertà di partenza: è ovvio che 99 su 100 non lo farebbero mai se non fossero povere. Ma questa affermazione può essere applicata identicamente anche alla signora rumena che ha lasciato i figli a sua madre per venire qui a fare la badante a nostra nonna. Quale donna accetterebbe di rinunciare all’infanzia dei suoi bambini per andare in un paese straniero a offrire la sua forza fisica, la sua presenza e la sua cura a una famiglia estranea se non venisse pagata abbastanza da migliorare la sua svantaggiatissima posizione di partenza? In quel caso non è sempre la sua povertà che stiamo comprando, o vogliamo raccontarci che emigrare dall’Est europeo per fare le badanti è un lavoro come un altro? Le ore che paghiamo a queste donne non sono solo il tempo che passano ad occuparsi della vecchiaia di nostra madre: sono sopratutto il tempo migliore della loro vita, quello che non passano con i loro figli, con il marito, nel proprio paese, a fare altro.

È uno sfruttamento evidente, perché nessuno stipendio consentirà mai loro di ricomprarsi quello a cui stanno rinunciando, nessuna tredicesima ripagherà i loro figli della privazione di aver visto la madre quattro volte l’anno per tutta l’infanzia. È ipocrita non voler vedere che la nostra emancipazione, la libertà di andare a lavorare o di vivere la vita della nostra famiglia anziché votarsi all’assistenza di una persona anziana è conquistata a prezzo della non emancipazione di altre donne, alle quali il compito di cura che la società ha sempre preteso dalle donne italiane è stato semplicemente trasferito.

Del resto, quante sono le donne che ogni giorno anche qui rinunciano o rimandano la possibilità di diventare madri perché perderebbero il lavoro o sarebbero costrette a lasciarlo? Non è un problema di sfruttamento il fatto che ci siano aziende che per assumerle pretendano la loro sterilità, datori di lavoro che gliela chiedano sin dal colloquio di assunzione e uno Stato che tagli i servizi e proponga forme di contratto che tutelano sempre meno le donne che scelgono di essere madri nonostante tutto?

Mi pare evidente che il problema etico della remunerazione della gravidanza surrogata sia identico per natura a quello di qualunque prestazione estrema di vita che si fa in cambio di denaro: è un problema di classe, di rapporti di potere economico e sociale, di scambio impari. Può essere evitato? Se sì, il sistema non lo abbiamo ancora trovato. Se ne possono limitare i danni? Certo che sì, ma rifiutare di riconoscere che siamo già tutti e tutte dentro un mercato non è forse il modo più costruttivo per cominciare a farlo.

Dove si ferma il denaro. Senza regole vince il mercato

La legge risolve il problema della mercificazione? No. Accettare per legge che una GPA sia remunerata e che i genitori intenzionali siano obbligati a coprire anche tutte le spese correlate di assicurazione, assistenza medica, psicologica e collaterali offrirebbe molte garanzie alla gestante, ma avrebbe la controindicazione di legittimare la gravidanza surrogata per quello che clandestinamente già è: una opportunità per soli ricchi. Chi non ha tutti quei soldi – poiché i figli li vuole anche chi ha meno potenzialità di spesa – si sposterà verso la clandestinità, cioè verso quelle donne più povere o meno adatte fisicamente che sono disposte a fare comunque la gestazione, ma a costi minori, in maniera meno tutelata, con maggior rischio e senza garanzie.

Questo è il mio problema etico maggiore: se questa opportunità resterà costosa, e anzi per legge costerà di più proprio per offrire delle garanzie a chi è fragile, i diritti della gestante che solo il denaro in gioco garantisce verranno percepiti dai committenti come un costo da abbassare, spingendo gli aspiranti genitori meno abbienti a spostarsi dove le legislazioni sono più blande o semplicemente le donne sono più bisognose. Mentre nel primo caso chi può spendere tanto (o ha più coscienza) avrà la prima scelta e offrirà alla gestante garanzie superiori, chi può spendere meno incontrerà l’offerta meno qualificata di donne disposte a tutto per cifre minori, esattamente come chi ora aggira i canali dell’adozione ufficiale per diventare genitore prima saltando la fila e le pretese burocratiche. Il problema dell’etica, comunque la si giri, mi pare sempre legato alla disparità economica.

C’è poi un altro fattore che mi impedisce di avere certezze: il fatto che tra i genitori intenzionali e la persona che accetta di portare avanti la gravidanza per loro conto ci sia un accordo economico pone questioni che non riguardano tanto il fatto di dare un prezzo alla funzione riproduttiva del corpo della donna (il che attiene alla sua libertà di scelta e ai limiti entro i quali la può esercitare) quanto l’equivoco che può generarsi riguardo al bambino che nasce. Qui i miei dubbi si fanno fortissimi, perché i casi di cronaca ci dicono chiaramente che una parte delle coppie che si rivolge a terzi per generare è convinta di stare “ordinando” un bambino, e non semplicemente pagando la disponibilità alla gestazione. Quello che ne consegue è la pretesa di avere un “prodotto conforme” alle aspettative, con tutto l’orrore che deriva dall’ipotesi di un rifiuto nel momento in cui invece non lo fosse. È possibile rifiutare un bambino malato? È possibile chiedere alla donna gestante di abortire se la malattia è diagnosticata durante la gravidanza? Sono questioni che turbano, ma la cui risposta, in assenza di una legge che ponga dei limiti, non potrà che essere sempre sì.

Se vogliamo dei “no” ci vogliono norme che li impongano, perché senza una legge che metta dei limiti, i genitori intenzionali possono sparire senza lasciare traccia e chi si è visto si è visto. Possono rifiutare il bambino a nascita avvenuta senza alcuna conseguenza legale, semplicemente perché hanno cambiato idea. Possono sparire e rifiutarsi di pagare se la gestante non abortisce, o se perde il bambino, o se muore lei stessa di parto. In assenza di leggi a tutela delle parti deboli, la forza del denaro può fare tutto.

Prima delle legge sul divorzio gli uomini sparivano, abbandonavano le donne e i figli e nessuno poteva obbligarli al mantenimento. Prima della legge sull’aborto le donne abortivano lo stesso, ma morivano nel tentativo clandestino e nessuno ne aveva responsabilità. Le leggi che consentono sono le sole che possono mettere dei limiti all’azione che stanno legittimando, per il fatto stesso di riconoscerla. L’assenza di leggi permette invece qualunque eccesso, perché nessuno degli abusi perpetrati sulla parte debole è definibile come tale: semplicemente, senza legge, non esiste.

Libere di scegliere fino all’ultimo. Perché la gestante non è un contenitore.

Una donna che accettasse di portare avanti una gestazione per altri avrebbe il diritto di cambiare idea durante la gravidanza e decidere alla nascita di tenersi il bambino come proprio, anche se i gameti non erano i suoi? Mi sono trovata a parlare di questa questione con molte donne e la risposta a questa domanda è stata la stessa per tutte: sì.

La motivazione è evidente: proprio perché un essere umano non è una merce, in nessun caso il denaro versato alla donna gestante può essere considerato un corrispettivo per il bambino, ma sempre e soltanto una remunerazione della sua gestazione. Si paga il tempo, si paga il rischio, si pagano le assistenze, ma non si compra il nascituro, la cui cessione avviene per pura volontà da parte di colei che ne è a tutti gli effetti la madre fisica. Non importa di chi sono gli ovociti e lo sperma: anche la gestante ci mette del suo, non è un mero corpo attraversato. Non importa nemmeno quanto è costato il processo: il risultato sarà comunque un dono, che può restare in mano alla sola persona che ha il diritto di considerarlo proprio fino a quando non rinunci spontaneamente a farlo. Questo è uno dei pochi aspetti su cui non ho alcun dubbio etico, se non altro per una questione di sproporzione del rischio. È infatti innegabile che in un accordo di questo tipo la stragrande maggioranza dei pericoli ricada su chi porta fisicamente avanti la gravidanza.

Tra questi pericoli, non ultimo, c’è anche la morte. La donna gestante ci mette il sangue, il tempo, il sonno, il sentimento, la variazione ormonale, le modifiche alimentari e d’abitudine, la mutazione del corpo e l’alterazione delle sue dinamiche relazionali. Ha la percezione fisica della vita che nasce e vive da protagonista il processo delicatissimo che connette un essere umano compiuto a uno in formazione. Questo processo investe la sua interezza di persona, non solo il suo utero, e che nell’arco dei nove mesi la sua volontà possa mutare deve essere considerata una possibilità sempre lecita, in effetti il solo rischio a carico dei genitori intenzionali, oltre a quello di un’ipotesi di morte del bambino durante la gravidanza o la nascita. Naturalmente questo apre a potenziali tentativi di ricatto da parte della gestante per alzare il prezzo della rinuncia, ma credo sia un rischio assolutamente sostenibile a fronte di quello che si assume chi porta avanti la gravidanza.

Il figlio logico e il figlio biologico

Nelle riflessioni precedenti non ho detto una sola parola sul bambino, nonostante tutta la questione della GPA ruoti intorno al desiderio di averlo. Non l’ho fatto perché credo che sia paradossalmente la parte meno problematica del discorso, giacché un bambino nato con una GPA è esattamente uguale agli altri. Non ha difetti di partenza né privilegi particolari, a meno di non voler considerare un privilegio quello di essere stato desideratissimo.

Nel momento in cui la gestante rinuncia a lui a favore dei genitori intenzionali, il concepito entrerà a far parte di una famiglia dove sarà esposto alle stesse certezze e agli stessi rischi a cui è esposto un bambino cresciuto adottato o uno allevato dagli stessi che lo hanno concepito in maniera tradizionale o assistita. Chi lo accoglie può offrirgli le stesse garanzie di qualunque altro genitore, cioè poche, se non quella di amarlo al meglio che può. Ha diritto a conoscere il modo in cui è stato concepito? Se i gameti erano di chi lo crescerà, il diritto a conoscere la propria identità biologica non mi pare in discussione, dato che quelli sono anche i suoi genitori biologici. Se invece non lo erano, vale la legislazione che si applica nei paesi dove la fecondazione eterologa è consentita, ma questo non riguarda la GPA, perché comunque l’ovocita con cui è stato concepito poteva anche non essere della gestante. È in ogni caso un falso problema, dato che un bambino generato tradizionalmente può essere stato concepito nelle circostanze più varie (amore, ma anche rapporto occasionale da nubili, violenza sessuale, rapporto con terzi all’insaputa del partner ufficiale, prostituzione) e nessuna di noi nei secoli dei secoli si è mai sentita in obbligo di rendergliele note, ammesso che gli importasse saperlo.

I problemi, mi pare, sorgono solo quando i genitori intenzionali hanno una percezione mercificata del bambino e sono convinti di star attendendo, più che un figlio, un prodotto genetico con delle specifiche. La legislazione americana degli Stati in cui è consentita la GPA non offre alcuna garanzia che questo non accada, a partire dal fatto che consente cose come la scelta del sesso e soprattutto perché afferma che il figlio appartiene ai committenti sin dall’impianto nell’utero della gestante, ridotta in questo modo a mero contenitore. Per cui, se devo immaginare una legislazione europea o italiana in merito, non penso certo al modello applicato in California.

Poniamo il caso che durante la gravidanza gli esami rivelino che il feto non è sano. In nessun caso la donna può essere costretta ad abortire se non vuole farlo, e dove i genitori committenti hanno provato a farglielo fare è successo che i giudici, persino quelli americani, hanno dato ragione alla gestante. Ma se il bambino che nasce non è desiderato da nessuno degli adulti coinvolti nella sua generazione, di chi è la responsabilità su di lui? Formalmente nessuno può essere obbligato ad assumersela. La rinuncia alla patria potestà e alla cura in un caso simile sono già possibili ai genitori tradizionali; sarebbe difficile spiegare perché non dovrebbero essere possibili anche ai genitori intenzionali.

L’abbandono e la successiva adottabilità sono sempre possibili. Simile è il caso della gemellarità, che non è infrequente in questo tipo di fecondazione e che ha già creato una inquietante casistica. Prendo il caso estremo comparso anche sui giornali: la coppia che ha chiesto alla gestante di abortire uno dei due gemelli concepiti e portare avanti solo la gravidanza dell’altro si è vista opporre il suo rifiuto. Penso che quel rifiuto sia legittimo e che finché la vita si trova all’interno del ventre della gestante spetti sempre a lei – e a lei sola – decidere cosa vuole o non vuole fare. Nella stesura di una legge in merito escluderei senz’altro che scelte diverse possano essere contrattualizzabili. I genitori intenzionali in quel caso hanno provato a opporre la motivazione del diritto di proprietà del patrimonio genetico: “Può esserci imposto che al mondo ci sia un essere umano che ha il nostro stesso Dna e quello di nostro figlio, ma che noi non abbiamo generato né voluto?” La risposta non può essere che sì, perché nessun (peraltro inesistente) diritto di esclusiva sul proprio patrimonio genetico potrà mai essere superiore al diritto di una donna a non violare il proprio corpo se non desidera farlo, tanto meno a sopprimere un essere umano perché altri lo considerano in eccesso. Persino la Cina ha smesso di pretendere dalle donne l’aborto dei figli propri, quando eccedevano il numero consentito dalla famigerata legge del figlio unico. Se i genitori intenzionali non lo desiderano e la gestante neppure, il bambino diverrebbe adottabile come qualunque altro bimbo rifiutato alla nascita dai suoi genitori naturali.

Veni Locator Spiritus. Considerazioni da cristiana a margine della surrogata concezione.

La gestazione per altri mi pone questioni molto meno problematiche di quanto non siano quelle che mi pone l’aborto. La GPA è infatti orientata alla generazione di una vita, non alla sua soppressione, e anche solo per questo andrebbe valutata con parametri diversi. La Bibbia racconta alcuni casi eclatanti di gestazione per altri, perché il patriarcato veterotestamentario vi ricorre più volte. La prima è proprio il caso di Abramo, la cui moglie Sarai gli dà la sua schiava Agar perché si unisca a lui e generi un figlio che ella considererà proprio: «Ecco, il Signore mi ha impedito di aver prole; unisciti alla mia schiava: forse da lei potrò avere figli» (Gen 16). Agar genererà Ismaele, ma poi da Sarai arriverà Isacco, il figlio della promessa, e allora entrambi, madre e figlio della carne, saranno scacciati per far posto al bambino della padrona.

Altro caso clamoroso e analogo è quello di Giacobbe, sposato con le due sorelle Rachele e Lia, ciascuna delle quali pone rimedio ai propri ritardi nel concepimento offrendo al marito le proprie schiave Zilpa e Bila. «Ecco la mia serva Bila» – dice Rachele a Giacobbe dopo l’ennesimo parto della sorella rivale – «unisciti a lei, così che partorisca sulle mie ginocchia e abbia anch’io una mia prole per mezzo di lei» (Gen. 30). Sono parole impressionanti, tanto più che non sono un caso isolato: dei capostipiti delle dodici tribù di Israele che sono stati generati da Giacobbe, ben quattro – Dan, Neftali, Gad e Ascer – sono figli di queste gravidanze per procura e della volontà ferrea di donne che non si sono rassegnate alla propria sterilità. L’analisi del contesto non può però prescindere dalla struttura sociale in cui queste azioni di trasferimento sono state praticate: nel mondo tribale veterotestamentario una donna senza figli era una donna priva di valore sociale, insignificante per il marito, a costante rischio di ripudio e oggetto di sberleffo per le altre donne. La sterilità era una morte civile, una maledizione e allo stesso tempo una vergogna, e a essa corrispondeva l’azzeramento di tutti i diritti. Questa considerazione non può non suscitare la domanda: cosa significa oggi essere sterili o impossibilitate a condurre una gestazione? Per una donna del 2015 può voler dire la stessa cosa che potevano intendere donne come Sarai, Lia e Rachele? È ancora il nostro ruolo sociale così condizionato dalla maternità da spingerci a surrogare la gravidanza per soddisfare il desiderio di un figlio?

L’altra questione è di classe ed è ineludibile: Sarai, Rachele e Lia sono le padrone tanto quanto Agar, Bila e Zilpa sono le loro schiave: è solo in forza di questo che la gravidanza per procura è resa possibile. I figli delle tre gestanti possono essere considerati delle loro padrone perché esse stesse sono una proprietà delle padrone, cose possedute al pari degli armenti e delle suppellettili di casa. Il rapporto è gerarchico, fuori da qualunque reciprocità, e la ribellione della donna sottoposta – perché a un certo punto Agar si rivolta contro Sarai, forte del bambino che ha dato ad Abramo – si rivela fatale per lei stessa, condannandola al deserto e, senza l’intervento di Dio, certamente alla morte. Il ricorso alla surrogazione nella Bibbia ha sempre come premessa la subordinazione della donna gestante. Chi volesse quindi appoggiarsi al testo sacro per giustificarla si incarterebbe nelle sue stesse contraddizioni: non c’è niente in quelle pagine che delinei la surrogazione come atto gradito al Signore.

Tuttavia qualche interesse per l’oggi in quegli episodi c’è: nella società tribale e primitiva della Bibbia è presente un separazione netta tra il diritto di chi compie l’atto generativo e quello di chi rivendicherà l’appartenenza del concepito. È la volontà, non il ventre o il seme, che determina l’identità filiale. È un principio che appare molto più chiaro nella legge del levirato, che consentiva alle donne rimaste vedove senza figli di rivendicare l’unione con un congiunto del marito morto per ottenere quello che in natura è assurdo: generare al defunto un figlio postumo. È una legge millenaria che si fonda evidentemente sull’assolutismo della continuità del sangue, ma è interessante vedere come nella Bibbia questa legge venga fatta rispettare da Tamar, la giovane nuora di Giuda che, rimasta vedova e senza figli, finisce per prostituirsi al suocero con l’inganno per dare un figlio al marito morto e a sé stessa. I due gemelli Zerach e Perez vengono di fatto generati attraverso una paternità surrogata, una fecondazione eterologa ottenuta contro la volontà stessa del donatore, il quale però, una volta scoperto l’inganno, riconoscerà che quella donna è stata più giusta di lui davanti alla legge. Per capire il peso di questo episodio non è inutile ricordare che uno dei figli “rubati” da Tamar a suo suocero Giuda si trova nella genealogia di Cristo.

Però anche questa notazione non risolve la domanda fondamentale: è lecito ricercare la vita a ogni costo? Se esiste un limite, qual è? Per la dottrina cattolica i paletti sono chiari: da coppia eterosessuale coniugata ci si può spingere fino alla fecondazione omologa con seme ottenuto in modo accettabile alla salvaguardia del fine unitivo, senza ovuli fecondati in eccesso e nel proprio stesso utero. Occorre quindi essere eterosessuali, coniugati, fertili entrambi, senza malattie gravi trasmissibili e in grado di portare avanti la gestazione. Non è poco. Se uno di questi requisiti è assente, l’alternativa è la rassegnazione alla volontà di Dio o l’adozione, con le regole italiane e internazionali che ben conosciamo. Molti a una visione così categorica non si rassegnano. Il desiderio di una vita è troppo più forte di una dottrina e davanti alla prospettiva di morire sterili molte di noi tornano ad essere Sarai, Rachele, Lia e Tamar. E’ difficile dar loro torto, quando è stato proprio il cattolicesimo ad aver posto la maternità come supremo marcatore della femminilità compiuta.

La discriminante in un ragionamento da credenti non può dunque essere “quanto voglio il figlio”, che è un desiderio legittimo sia sul piano emotivo che sul piano simbolico, ma “quanto sono disposta a usare il corpo di un’altra per ottenerlo”. Che lei me lo conceda è relativo: il bisogno economico potrebbe spingerla a farsi mia schiava come Bila lo fu di Rachele e in questo non c’è autodeterminazione. La mia a prezzo della sua… è accettabile? Ed è autodeterminazione il pensiero che mi impedisce di percepirmi pienamente donna se non divento anche madre? Non lo so, perché questa spinta a riprodurmi non l’ho mai avvertita dentro di me al punto da considerare un’ipotesi del genere. So però che davanti al desiderio di un’amica, di una sorella del cuore, quello che non ho chiesto mai a un’altra per me stessa, lo farei io liberamente per lei. E non vorrei che esistesse una legge che mi dicesse che non posso farlo.

Fonte http://m.espresso.repubblica.it/attualita/2016/02/01/news/michela-murgia-non-chiamatela-maternita-surrogata-1.248420